eravamo a poca distanza dalla costa, era già costa francese, il primo lembo di terra straniera, ch’io vedeva: curiosa! non potevo saziarmi di guardare, e mille vaghi pensieri mi giravano per la testa, e dicevo: è la Francia? ma davvero? Son proprio io che son qui? Mi venivan dei dubbi sulla mia identità. A mezzogiorno si cominciò a vedere Marsiglia. La prima vista d’una gran città di mare dà come una sorta di stordimento, che uccide il piacere della meraviglia. Vedo, come a traverso d’una nebbia, un’immensa foresta di navi, un barcaiuolo che mi porge la mano parlandomi non so che gergaccio incomprensibile, una guardia doganale che mi fa pagare, non so in virtù di che legge, deux sous pour les Prussiens; poi una oscura camera d’albergo; poi strade lunghissime, piazze sconfinate, un viavai di gente e di carrozze, drappelli di zuavi, divise militari sconosciute, migliaia di lumi, migliaia di voci, e infine una stanchezza e una malinconia profonda, che finisce in un sogno penoso. L’indomani mattina all’alba ero in un carrozzone della strada ferrata che va da Marsiglia a Perpignano, in mezzo a una diecina d’ufficiali degli zuavi, arrivati il giorno innanzi dall’Affrica, chi colle gruccie, chi col bastone, chi con un braccio al collo; ma allegri e chiassoni come scolaretti. Il viaggio era lungo: bisognava pur cercar di discorrere; però, con tutto quello che avevo inteso dire della bile che hanno i Francesi con noi, non m’arrischiavo ad aprir bocca. Baie! Mi diresse la parola un di loro, si appiccò discorso: “Ita-