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52 | saragozza. |
in mezzo alla navata principale, è un monte di tesori. La sua cinta esteriore, nella quale sono aperte alcune piccole cappelle, presenta una incredibile varietà di statuette, di colonnine, di bassorilievi, di fregi, di pietre, da dover star là una giornata per poter dire d’aver visto qualcosa. I pilastri delle due ultime navate, e gli archi che s’incurvano sulle cappelle, sono sopraccarichi, dalla base alla volta, di statue, — alcune enormi che par reggan sulle spalle l’edifizio, — di emblemi, di sculture e d’ornamenti d’ogni forma e d’ogni grandezza. Nelle cappelle una profusione di statue, di ricchi altari, di tombe regie, di busti, di quadri, che immersi come sono in una mezza oscurità, non offrono allo sguardo che una confusione di colori, di luccichii, di forme vaghe, tra le quali l’occhio si perde, e l’immaginazione si stanca. Dopo molto correre di qua e di là, col quaderno aperto e la matita in mano, notando e disegnando, mi s’ingarbugliò la testa, stracciai i fogli rabescati, promisi a me stesso che non avrei scritto nulla di nulla, uscii dalla chiesa, e mi rimisi a girar per la città, senza veder altro, per lo spazio d’una mezz’ora, che lunghe navate oscure, e statue biancheggianti in fondo a cappelle misteriose.
V’hanno dei momenti in cui il viaggiatore più gaio e più appassionato, girando per le strade d’una città sconosciuta, viene assalito improvvisamente da un così profondo senso di noia che se potesse, per virtù d’una parola, rivolare a casa tra i suoi, colla