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saragozza. 43

romana; una larga fascia azzurra intorno alla vita; un paio di calzoncini corti, di velluto nero, stretti intorno al ginocchio; le calze bianche; una specie di sandali a nastri neri incrociati sul dosso del piede; e in questa artistica varietà di vestimento, l’impronta evidente della miseria; e con quest’evidenza di miseria, un non so che di teatrale, di altero, di maestoso nel portamento e nei gesti, un’aria da Grandi di Spagna decaduti, che mette in dubbio, al vederli, se s’abbia da ridere o da compiangere, da metter la mano alla borsa per fare un’elemosina o da levarsi il cappello in segno di riverenza. E non son altro che contadini dei dintorni di Saragozza. Ma quella che ho accennato non è che una delle mille varietà della stessa foggia di vestire. Andando oltre, ad ogni passo ne incontrai una nuova: vi sono i vestiti all’antica, i vestiti alla moderna, gli eleganti, i semplici, i festivi, i severi, ognuno con ciarpe, fazzoletti, calze, cravatte, panciotti di colori diversi; le donne colla crinolina, e le sottane corte, che lascian vedere un po’ di gamba, e i fianchi spropositatamente rialzati; i ragazzi anch’essi col loro manto a striscie e la loro pezzuola intorno al capo, e i loro atteggiamenti drammatici, come gli uomini. La prima piazza sulla quale riuscii era piena di questa gente, divisa in gruppi, chi seduto sugli scalini delle porte, chi appoggiato agli angoli delle case, qualcuno sonando la chitarra, altri cantando; molti in giro a chieder l’elemosina, coi panni rappezzati e laceri, ma pur colla testa alta e l’occhio fiero; pa-