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saragozza. 41

improvvisamente e mi susurrò nell’orecchio: "Cuidado (prudenza) con las mujeres, que tienen muy malas consecuencias en España." Poi scese e si fermò per veder partire il treno, e alzando una mano in atto di paterna ammonizione, disse ancora una volta: "Cuidado!"

Arrivai a Saragozza a notte avanzata, e scendendo, mi colpì subito l’orecchio la cadenza particolare colla quale parlavano i vetturini, i facchini e i ragazzi, che si disputavano la mia valigia. In Aragona si può dir che si parla il castigliano, anche dal popolo minuto, benchè con qualche storpiatura e qualche barbarismo; ma allo spagnuolo delle Castiglie basta una mezza parola per riconoscere l’aragonese; e non c’è castigliano infatti, che non sappia imitare quell’accento, e non lo metta, all’occasione, in ridicolo, per quello che ha di rozzo e di monotono, presso a poco come si fa in Toscana della parlata di Lucca.

Entrai nella città con un certo sentimento di trepida riverenza; la terribile fama di Saragozza me ne imponeva; quasi mi mordeva la coscienza di averne tante volte profanato il nome nella scuola di Rettorica, quando lo gettavo in volto, come un guanto di sfida, ai tiranni; le strade eran buie; non vedevo che il nero contorno dei tetti e dei campanili sul cielo stellato; non sentivo che il rumore delle diligenze degli alberghi che si allontanavano. A certe svoltate, mi pareva di veder luccicare alle finestre canne di fucile e pugnali, e di udir grida lontane di feriti.