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granata. 463


muro dinanzi, con buchi per finestre e screpolature per porte, e piante selvatiche d’ogni specie di sopra e dai lati; veri covi di belve, nei quali, al chiarore di lumicini appena visibili, formicolavano i gitani a centinaia; un popolo brulicante nelle viscere del monte, più povero, più nero, più selvaggio di quello visto fino allora; un’altra città, sconosciuta alla maggior parte dei Granatini, inaccessibile agli agenti della polizia, chiusa agli impiegati del censimento, ignara d’ogni legge e d’ogni governo, vivente non si sa come, numerosa non si sa quanto, straniera alla città, alla Spagna, alla civiltà moderna, con linguaggio e statuti ed usi proprii, superstiziosa, falsa, ladra, accattona, feroce.

"S’abbottoni il soprabito e badi all’orologio," mi disse il Gongora; "e andiamo avanti."

Non avevamo fatto cento passi quando un ragazzo seminudo, nero come le pareti del suo tugurio, ci scorse, gettò un grido, e facendo cenno ad altri ragazzi che lo seguissero, si slanciò verso di noi; dietro i ragazzi accorsero le donne; dietro le donne, gli uomini; e poi vecchie e vecchi e altri bambini; e in men che non si dice fummo circondati da una folla. I miei due amici, riconosciuti come Granatini, riuscirono a mettersi in salvo; rimasi io solo nelle péste. Mi pare di vedere ancora quei ceffi, di udire ancora quelle voci, di sentirmi ancora addosso quelle mani. Gesticolando, gridando, dicendo mille cose che io non capivo, tirandomi per le falde, pel panciotto, per le maniche, mi si stringevano addosso come un branco