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granata. 459


riosamente di quella: — Allontanati. — Non saprei trovarle miglior paragone di quello della bocca spalancata d’una gigantesca strega, che mandasse un alito pregno di miasmi pestilenziali. Ma mi feci coraggio ed entrai.

Oh meraviglia! Era il cortile d’una casa araba, cinto di colonnine graziose, sormontato da archi leggerissimi, con quegli indescrivibili ricami dell’Alhambra intorno alle porticine e alle finestrine binate, colle travi e gli assiti del soffitto scolpiti e coloriti, colle nicchiette per i vasi dei fiori e le urne dei profumi, col bagno nel mezzo, con tutte le traccie e i ricordi della deliziosa vita d’una famiglia opulenta! E in quella casa abitava quella povera gente!

Uscimmo, entrammo in altre case, in tutte trovai qualche frammento d’architettura e di scultura araba. Il Gongora mi diceva di tratto in tratto: — Qui c’era un Harem — Là i bagni delle donne — Lassù la stanzina d’una favorita; — e io figgevo gli occhi avidi su tutti i pezzi di muro rabescato e su tutte le colonnine delle finestre, come per domandar loro la rivelazione di qualche segreto, un nome, una parola magica colla quale potessi ricostrurre in un istante l’edifizio rovinato ed evocare le belle arabe che ci eran vissute. Ma ahimè! in mezzo alle colonne e sotto gli archi delle finestrine non si vedevano che cenci e visi rugosi!

Fra le altre case, entrammo in una dove trovammo un gruppo di ragazze che cucivano all’ombra d’un albero del cortile, sorvegliate da una