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dopo lo svegliarono, andò su a lavarsi il viso, corse all’Università ancora tutto assonnato, diede l’esame, e fu promosso a maggior gloria del vino di Jerez e della diplomazia spagnuola.


I giorni seguenti gl’impiegai a vedere i monumenti, o per dir meglio, le rovine dei monumenti arabi che, oltre all’Alhambra e al Generalife, attestano l’antico splendore di Granata. Poichè fu l’ultimo baluardo dell’Islam, Granata è fra le città di Spagna quella che ne serbò più numerosi ricordi. Sulla collina che si chiama di Dinadamar (fonte delle lagrime), si vedono ancora le rovine di quattro torri, che s’innalzavano ai quattro angoli d’una grande cisterna, nella quale affluivano dalla Sierra le acque che servivano agli usi della parte più alta della città. Là eran bagni, giardini e ville, delle quali non rimane più traccia, e di là si abbracciava con un colpo d’occhio la città coi suoi minareti, colle sue terrazze, colle sue moschee biancheggianti in mezzo alle palme e ai cipressi. Là presso si vede ancora una porta araba, chiamata porta d’Elvira, formata da un grande arco coronato di merli. Più oltre rovine di palazzi di Califfi. Presso il passeggio l’Alameda, una torre quadrata, con entro una gran sala ornata di quelle solite iscrizioni arabe. Presso il Convento di San Domingo, resti di giardini e di palazzi che erano una volta congiunti all’Alhambra per mezzo d’una via sotterranea. Dentro la città, l’Alcaiceria, mercato arabo quasi intatto, formato