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granata. 435


"Ma il vuoto!"

Gli guardai di nuovo la pancia.

"Eh capisco, signor mio; ma lei s’inganna, sa, se mi giudica dalle apparenze. Lei non può immaginare quello che provo io quando capita qui un Italiano. Che vuole? Sarà una debolezza... non so... ma io lo vorrei vedere tutto il giorno a tavola, e creda che se mia moglie non mi trovasse a ridire, io sarei capace di mandargli per conto mio una dozzina di piatti d’antipasto... come nulla."

"A che ora si desina domani?"

"Alle cinque. Del resto... qui si mangia poco... paesi caldi... tutti si tengon leggeri... di qualunque nazionalità sieno... è una regola... Ma non ha visto l’altro italiano che è qui?"

Così dicendo guardò intorno, e un uomo che ci stava osservando da un angolo del cortile, ci si avvicinò. L’albergatore, dette poche parole, ci lasciò soli. Era un uomo sulla quarantina, meschinamente vestito, che parlava co’ denti stretti e stropicciando di continuo le mani con un movimento convulsivo, come se facesse uno sforzo per trattenersi dal picchiare dei pugni. Mi disse che era lombardo, corista, arrivato il giorno innanzi a Granata con altri artisti di canto scritturati al teatro dell’Opera per la stagione d’estate.

"Sucido paese!" esclamò senz’altro preambolo, guardandosi intorno come se volesse pronunziare un discorso.

"Non sta volentieri in Spagna?" gli domandai.