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granata. | 433 |
aveva errato la mente il primo giorno. Non saprei più dire per dove gli amici mi facevan passare per entrar nell’Alhambra; ma mi ricordo che ogni giorno, nell’andare, vedevo mura e torri e strade deserte che non avevo viste mai, e mi pareva che l’Alhambra avesse mutato di sito, o si fosse trasformata, o le fosser sorti intorno, come per incanto, nuovi edifizii che ne alterassero l’aspetto primitivo. Chi potrebbe descrivere la bellezza di quei luoghi quando tramontava il sole! quel bosco fantastico quando vi batteva il lume della luna! la pianura immensa e le montagne coperte di neve, nelle notti serene! i grandiosi contorni di quelle mura enormi, di quelle superbe torri, di quegli alberi smisurati, sul cielo tempestato di stelle! lo stormire prolungato di quei mucchi immani di verzura che riempiono le valli e coprono i fianchi delle colline, quando soffiava la brezza! Era uno spettacolo dinanzi al quale, i miei compagni, nati a Granata, ed abituati a vederlo fin dalla infanzia, restavano senza parola, così che facevamo lunghi tratti di cammino in silenzio, ciascuno immerso nei suoi pensieri, col cuore compreso d’una mestizia dolcissima che a volte ci faceva inumidir gli occhi e alzar il viso al cielo con uno slancio di gratitudine e di tenerezza.
Il giorno del mio arrivo a Granata, quando rientrai all’albergo, a mezzanotte, invece del silenzio e della quiete, trovai il patio illuminato come una sala da ballo, gente ai tavolini che sorbiva granite,
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