Pagina:De Amicis - Spagna, Barbera, Firenze, 1873.djvu/428

422 granata.


follie, tante belle scempiaggini, tante fole, tante gentili cose senza senso, quante ne pensai e ne dissi in quell’ora.

"Ma bisogna venir qui," mi diceva il Gongora, "al levar del sole, bisogna venirci al tramonto, bisogna venirci di notte quando splende la luna, per veder che meraviglie di colori, di ombre e di luce! C’è da perderci il capo!"

Andammo a vedere le sale. Al lato di levante v’è una sala chiamata della Giustizia, alla quale si giunge passando sotto tre grandi archi, di cui ciascuno corrisponde a una porta che dà nel cortile. È una sala lunga e stretta, di ricca e ardita architettura, colle pareti coperte di intricati arabeschi e di preziosi musaici, e la vòlta tutta punte e groppi e sgonfi di stucco che pendon dagli archi, lungo le pareti, e qua e là s’ammucchiano, si abbassano, escon gli uni dagli altri, e gli uni gli altri si comprimono e si sovrappongono e par che si disputino lo spazio, come le bolle d’un’acqua in bollore, presentando ancora in molti punti le traccie dei colori antichi, che dovevan dare a quella vòlta l’aspetto d’un padiglione coperto di fiori e di frutta sospese. La sala ha tre piccole alcove, in ciascuna delle quali, sulla vòlta, si vede ancora una pittura araba, a cui il tempo e la estrema rarità dei lavori di pennello che son rimasti degli Arabi, danno un grandissimo valore. Le pitture son fatte sul cuoio, e il cuoio è attaccato al muro. Nello stanzino di mezzo son rappresentati, sur un fondo dorato, dieci uomini, che si