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418 granata.


Facemmo forse una quindicina di passi e ci arrestammo. Il Gongora disse con voce commossa: — Guardi! — Guardai, e lo giuro sul capo dei miei lettori: mi sentii scorrere due lagrime giù per le guancie.

Eravamo nel cortile dei Leoni.

Se in quello stesso momento m’avessero fatto uscire per dove ero entrato, non so se avrei saputo dire quello che avevo visto. Una foresta di colonne, un visibilio d’archi e di ricami, un’eleganza indefinibile, una delicatezza inimmaginabile, una ricchezza prodigiosa, un non so che di aereo, di trasparente, di ondeggiante, come un gran padiglione di trina; un’apparenza quasi d’un edifizio che si debba dissolvere con un soffio, una varietà di luci, di prospetti, di oscurità misteriose, una confusione, un disordine capriccioso di cose piccine, una maestà di reggia, una gaiezza di chiosco, una grazia amorosa, una stravaganza, una delizia, una fantasia di fanciulla appassionata, un sogno d’un angelo, una follia, una cosa senza nome; tale è il primo effetto del cortile dei Leoni.

È un cortile non più spazioso d’una gran sala da ballo, della forma d’un rettangolo, coi muri alti come una casetta andalusa d’un sol piano. Tutt’intorno ricorre un leggero portico, sostenuto da sveltissime colonne di marmo bianco aggruppate in un disordine simmetrico a due a due, a tre a tre, prive quasi di piedestallo, così che paion fusti d’alberi posati in terra; munite di capitelli svariati, alti, sottili,