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410 | granata. |
che il mondo non è corbellato: entriamo nelle catapecchie."
Entrammo per una piccola porta, attraversammo un corridoio, ci trovammo in un cortile. Io afferrai la mano del Gongora con un vivissimo slancio, ed egli mi domandò con un accento di trionfo:
"S'è persuaso?"
Non risposi, non lo vidi, ero già sterminatamente lontano da lui: l'Alhambra aveva già cominciato ad esercitare su di me quel fáscino misterioso e profondo a cui nessuno può sfuggire e che nessuno sa esprimere.
Eravamo nel patio detto de los Arrayanes (dei mirti), che è il più vasto dell'edifizio, e presenta insieme l'aspetto d'una sala, d'un cortile e d'un giardino. Una gran vasca di forma rettangolare, piena d'acqua, cinta d'una siepe di mirto, si stende da un lato all'altro del patio, e riflette come uno specchio gli archi, gli arabeschi e le iscrizioni dei muri. A destra dell'entrata si stendono due ordini sovrapposti d'archi moreschi, sostenuti da leggiere colonne; e dal lato opposto del cortile s'alza una torre, con una porta, per la quale si vedono le interne sale semioscure e le finestrine binate, e di là dalle finestre, l'azzurro del cielo e le cime dei monti lontani. I muri sono ornati, fino a una certa altezza dal suolo, di splendenti musaici, e dal musaico in su, arabescati con disegno finissimo, che par che tremoli e si cangi a ogni passo; e qua e là fra gli arabeschi e lungo gli archi s'allungano e serpeggiano