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granata. | 407 |
Arrivammo dinanzi a una gran porta che chiude la strada; il Gongora mi disse: — Ci siamo, — io entrai.
Mi trovai in un gran bosco di alberi d’un’altezza smisurata, inclinati gli uni verso gli altri di qua e di là d’un grande viale che ascende su per la collina e si perde nell’ombra; e fitti tanto che appena vi potrebbe passare un uomo frammezzo, e dovunque si guardi, non si vedon che tronchi che par che chiudan la via come una parete continua. Gli alberi incrociano i rami al di sopra del viale; nel bosco non penetra un raggio di sole; l’ombra è oscurissima; e da ogni parte mormorano ruscelli, e cantano usignoli, e spira una freschezza primaverile.
"Siamo già nell’Alhambra" mi disse il Gongora; "si volti indietro, e vedrà le torri e le mura merlate della cinta."
"Ma dov’è il palazzo?" domandai.
"È un mistero," mi rispose; "andiamo innanzi, a caso."
Salimmo per un viale che fiancheggia il gran viale del mezzo, e va su a giravolte verso la sommità della collina. Gli alberi vi formano sopra come un padiglione di verzura che non lascia vedere un palmo di cielo, e l’erbe, i cespugli e i fiori gli fanno ai lati due leggiadrissime spalliere variopinte e odorose, e un po’ inclinate l’una verso l’altra, come se tendessero a congiungersi, attratte a vicenda dalla vaghezza dei colori e dalla soavità delle fragranze.
"Fermiamoci un momento," dissi "voglio tirare