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granata. 399


sedio e di sollevar pian piano per la coda un topino in salsa piccante, che riacquistando improvvisamente gli spiriti, mi addentasse il pollice, e mi fissasse in viso due occhietti inviperiti, ed io, colla forchetta alzata, fossi nel dubbio o di dargli l’andare o d’infilzarlo senza pietà. Ma, grazie a Dio, prima ch’io uscissi da questo bivio orribile, per consumare un atto che non avrebbe avuto riscontro nella storia degli assedii, il treno si fermò e un barlume di speranza mi ravvivò gli spiriti affaticati.

Eravamo arrivati non so a che villaggio. Mentre cacciavo la testa fuor del finestrino, una voce gridò: — Scenda chi va a Granata! — Mi precipitai giù dal carrozzone e mi trovai a faccia a faccia con un omaccione baffuto che mi tolse la valigia di mano, dicendomi che l’andava a mettere nella diligenza, perchè da quel villaggio fino a non so quante miglia dalla imperial Granada, non c’è strada ferrata.

"Un momento!" gridai allo sconosciuto con voce supplichevole: "Quanto tempo c’è per partire?"

"Due minuti!" rispose.

"C’è un’osteria?"

"È là."

Volai nell’osteria, trangugiai un uovo sodo, e scappai verso la diligenza gridando: "Quanto tempo c’è ancora?"

"Altri due minuti!" mi rispose la voce di prima.

Rivolai all’osteria, mandai giù un altr’uovo, e corsi di nuovo alla diligenza, ridomandando: "Si parte?"