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396 granata.


I treni delle merci ch'eran dinanzi, m'impedivano di vedere la stazione; credetti che fosse lontana; non scesi. Passan due minuti, ne passan cinque, ne passan otto, e i viaggiatori non tornano, e il treno non si muove. Salto giù, corro alla stazione, vedo un caffè, entro in una gran sala.... Dei del cielo! Cinquanta affamati stavano intorno a una tavola da refettorio, col muso sul piatto, coi gomiti in aria, cogli occhi all'orologio, divorando e gridando; e un'altra cinquantina si pigiavano intorno al banco, afferrando e intascando pani, frutti, confetti, mentre il padrone e i camerieri, ansimanti come cavalli, stillanti di sudore, correvano, si sbracciavano, urlavano, inciampavan nelle seggiole, urtavano gli avventori, buttavan qua e là spruzzi di brodo e d'intingoli; e una povera donna, che doveva essere la padrona del caffè, prigioniera in una nicchietta dietro al banco assediato, si metteva le mani nei capelli in atto di disperazione. A quella vista, mi cascaron le braccia. Ma subito mi feci forza e mi slanciai al saccheggio. Respinto da una gomitata nel petto, mi slanciai daccapo; ributtato da una fiancata nel ventre, raccolsi tutto il mio vigore per tentare un terzo assalto. In quel punto suonò la campanella. Fu uno scoppio di imprecazioni, e poi un cader di seggiole, un acciottolìo di piatti, un serra serra, un tramenìo di casa del diavolo. Chi trangugiando in furia gli ultimi bocconi, diventava livido e cacciava gli occhi fuor del capo come un impiccato; chi allungando una mano per afferrare un arancio, sospinto da un che scap-