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granata. 395


van gli occhi chiusi, v'era un'andalusina che guardava intorno con un sorrisetto briccone che pareva voler dire: — Via, lanciatemi degli sguardi languidi. — Ma il treno andava colla lentezza d'una diligenza sconquassata, e non si soffermava che pochi momenti alle stazioni. Al declinare del sole, lo stomaco cominciò a suonare a soccorso, e a render più fieri gli stimoli della fame dovetti fare un lungo tratto di strada a piedi. Il treno si fermò dinanzi a un ponte malfermo, tutti i viaggiatori scesero e sfilarono a due a due per andar ad aspettar le carrozze sull'altra sponda del fiume. Eravamo in mezzo alle roccie della Sierra Nevada, in un luogo deserto e selvaggio, che ci faceva parere d'esser gente condotta in ostaggio da una banda di briganti. Rimontati che fummo nei carrozzoni, il treno riprese a andare colla fiaccona di prima, e il mio stomaco ricominciò a languire più miseramente che mai. Arrivammo, dopo lungo tempo, a una stazione tutta ingombra di treni, dove una gran parte dei viaggiatori si precipitarono a terra, prima che io mettessi il piede sul montatoio.

"Dove vuol andare?" mi domandò un impiegato della strada ferrata, vedendomi scendere.

"A desinare," risposi.

"Ma lei non va a Granata?"

"A Granata."

"Se è così, non ha tempo; il treno riparte subito."

"Ma gli altri sono discesi."

"Li vedrà tornare di corsa di qui a un momento."