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392 | malaga. |
farmi dei molti dolori di capo e di stomaco cui andavo debitore allo scellerato intruglio che si spaccia in molte città d'Italia colla bugiarda raccomandazione di quel nome. Ma o ch'io non abbia saputo chiedere, o che non m'abbian voluto capire, il fatto è che il vino che mi fu dato all'albergo, mi bruciò le viscere e mi fece dar di volta al cervello. Potei nondimeno recarmi verticalmente fino alla cattedrale, e dalla cattedrale al castello di Gibralfaro, e in qualche altro luogo, e formarmi un'idea della bellezza delle malaghesi senza vederle doppie e tremole, come potrebbe supporre qualche maligno.
Strada facendo, il mio amico mi parlò di codesto repubblicanamente famoso popolo di Malaga, che ogni momento ne fa una delle sue. È un popolo ardentissimo; ma mutevole e docile, come tutti i popoli che senton molto e pensan poco, ed operano più per impulso di passione che per forza di convincimento. Per un nonnulla si raduna una folla immensa e si leva un tumulto da metter la città sossopra; ma il più delle volte basta un atto risoluto d'un uomo autorevole, un tratto di coraggio, un lampo di eloquenza per sedare il tumulto e disperdere la folla. L'indole del popolo, in fondo, è buona; ma la traviano la superstizione e la passione. E sopratutto la superstizione è forse più radicata a Malaga che in ogni altra città dell'Andalusia, a cagione della ignoranza maggiore. Tutto sommato, Malaga è la città meno andalusa ch'io m'abbia veduto, e v'è imbastardita persino la lingua, per-