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siviglia. 331


Siviglia non era più che un immenso giardino, nel quale folleggiava un popolo fremente di giovinezza e d’amore.

Per uno straniero, quelli son momenti assai tristi. Mi ricordo che avrei dato del capo nel muro. Erravo qua e là mezzo sbalordito, col capo basso, col cuore stretto, come se tutta quella gente si divertisse per insultare la mia solitudine e la mia malinconia. Era troppo tardi per portare le lettere di raccomandazione, troppo presto per andare a dormire: ero schiavo di quella folla e di quell’allegrezza, e dovetti subirla per molte ore. Provai un sollievo sforzandomi di non guardar in viso le donne; ma non ci riuscivo sempre, e quando i miei occhi incontravano per caso due pupille nere, la trafittura era più acerba, appunto perchè improvvisa, che se avessi sfidato il pericolo col cuore pronto. Ero pure in mezzo a quelle Sivigliane tremendamente famose! Le vedevo passare, strette al braccio dei loro mariti e dei loro amanti, toccavo le loro vesti, inspiravo il loro profumo, sentivo il suono delle loro molli parole, e il sangue mi saliva al capo come un’onda di fuoco. Fortunatamente mi ricordai d’aver inteso dire a Madrid da un Sivigliano che il Console d’Italia soleva passar la serata nella bottega d’un suo figliuolo negoziante; cercai questa bottega, la rinvenni, vi trovai il Console, e consegnandogli una lettera d’un amico suo: — Caro Signore! — gli dissi con un tuono drammatico che lo fece ridere; — mi soccorra lei; Siviglia mi fa paura!