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cordova. | 313 |
io sedetti e aspettai. A un tratto sentii aprire una porta dietro di me, mi voltai.... Angeli del cielo, che vidi! La più bella di tutte le più belle Andaluse, non solo di quelle vedute a Cordova, ma di tutte quelle che vidi poi a Siviglia, a Cadice, a Granata; una ragazza, mi si lasci dir la parola, tremenda, da far fuggire, o commettere qualche diavoleria; uno di quei visi che facevan gridare: oh povero me! a Giuseppe Baretti, quando viaggiava in Spagna. Stette qualche momento immobile, cogli occhi fissi nei miei, come per dire: — ammirami; — poi si voltò verso la cucina e gridò: — Tia, despáchate! — (Zia, spicciati); il che offrì a me l'occasione di renderle muchas gracias colla lingua impacciata, e a lei il pretesto d'avvicinarsi rispondendo: — No hay de que — con una voce così soave, che mi sforzò ad offrirle una seggiola, sulla quale sedette. Era una ragazza sui vent'anni, alta, diritta come una palma, bruna, con due grand'occhi pieni di dolcezza, luccicanti ed umidi che pareva avessero versato allora allora una lagrima; e una nerissima capigliatura ondulata, con una rosa fra le treccie. Pareva una delle vergini arabe della tribù degli Usras, che facevano morir d'amore.
Cominciò la conversazione ella stessa.
"Usted es extranjero, me parece?"
"Sì."
"Frances?"
"Italiano."
"Italiano? Paisano del Rey?"