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arrivar fino a loro. Ebbi l’onore di conoscere il Tamayo,
l’Hatzembuch, il Guerra, il Saavedra, il Valera, il Rodriguez, il Castelar, e molti altri chiarissimi quali nelle lettere e quali nelle scienze, e li trovai tutti a un modo: aperti, cordiali, focosi; uomini coi capelli bianchi, ma con occhi e voci di giovani ventenni; appassionati per la poesia, per la musica, per la pittura; allegri, gesticolanti, ridenti d’un riso fresco e sonoro. Quanti ne vidi leggendo dei versi del Quintana o dell’Espronceda, impallidire, piangere, balzare in piedi come scossi da una scintilla elettrica, e mostrar tutta l’anima negli sguardi raggianti! Che giovanili anime! Che ardenti cuori! Come mi compiacevo, vedendoli ed ascoltandoli, di appartenere a questa povera razza latina, di cui diciamo ora le sette pèste, e come mi rallegravo pensando che più o meno siamo tutti fatti su quello stampo, e che, perdio, potremo abituarci a poco a poco a invidiare lo stampo degli altri, ma non riusciremo a perdere il nostro mai!
Dopo tre mesi e più di soggiorno a Madrid, dovetti partire per non lasciarmi poi cogliere dall’estate nel mezzogiorno della Spagna. Ricorderò sempre quella bella mattina di maggio, ch’io abbandonai, forse per sempre, la mia cara Madrid. Partivo per andar a vedere l’Andalusia, la terra promessa dei viaggiatori, la fantastica Andalusia della quale avevo tanto inteso decantare le meraviglie in Italia e in Spagna, dai romanzieri e dai poeti; quell’Andalusia per la quale posso dire che avevo im-