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madrid. | 237 |
bello sentir dire da lui queste cose: «Io non vedo più le pareti della sala,» dice, «vedo genti e paesi lontani che non ho mai visti.» — E parla per ore e per ore, e non un deputato esce dall'aula, non una persona si muove nelle tribune, non una voce lo interrompe, non un gesto lo distrae; neanche quando fa una scappatella in barba del Regolamento, il Presidente non ha il coraggio d'interromperlo; egli fa balenare a suo bell'agio l'immagine della sua repubblica vestita di bianco e coronata di rose, e i monarchici non s'arrischiano a protestare, perchè, così vestita, la trovan bella anch'essi; il Castelar è signore dell'Assemblea: tuona, sfolgora, canta, strepita e scintilla come un fuoco d'artifizio, fa sorridere, strappa grida di entusiasmo, finisce in mezzo a un immenso fragore d'applausi, e se ne va colla testa in visibilio. Tale è questo famoso Castelar, professore di storia all'Università, fecondissimo scrittore di politica, d'arte, di religione; pubblicista che razzola cinquantamila lire all'anno nei giornali d'America, accademico eletto ad unanimità dall'Academia española, segnato a dito per le vie, festeggiato dal popolo, amato dai nemici, giovane, gentile, vanerello, generoso, beato.
E poichè siamo all'eloquenza politica diamo uno sguardo alla letteratura. Raffiguriamoci una sala di Accademia piena di confusione e di strepito. Una folla di poeti, di romanzieri e di scrittori d'ogni natura, aventi quasi tutti qualcosa di francese nel