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216 | madrid. |
allungando il collo scarnificato, agitando il teschio a caso, qua e là, come i cani neonati; era schifoso ed orribile; io socchiudevo gli occhi per vederlo in confuso. E il carnefice continuava a beccare le piaghe, a sforacchiare le occhiaie, a picchiare sul nudo cranio; non era più una lotta, era un rodimento; pareva che volesse disfarlo, senza ucciderlo; a volte, quando la vittima rimaneva un momento immobile, si chinava a guardarla coll'attenzione d'un anatomico; a volte si scostava e la guardava dall'alto coll'indifferenza d'un becchino; poi di nuovo addosso coll'avidità d'un vampiro, e lì becca, e succhia e strazia con più vigore di prima. Finalmente il moribondo, fermatosi all'improvviso, chinò il capo a terra come preso dal sonno, e il carnefice, guardandolo attentamente, ristette.
Allora le grida raddoppiarono; non si poteva più scommettere sulle convulsioni dell'agonia, si scommetteva sui sintomi della morte: — Cinco duros á que no levanta mas la cabeza! (che non rialza più il capo). — Dos duros á que la levanta! — Tres duros á que la levanta dos veces! — Va! — Va!
Il gallo moribondo rialzò adagio adagio la testa; il boia, pronto, gli rovesciò addosso una tempesta di beccate; le grida tornarono a scoppiare; la vittima fece di nuovo un leggero movimento, — toccò un'altra beccata, — si scosse, — toccò una beccata ancora, — versò sangue per la bocca, vacillò e cadde. Il vincitore, vigliacco, si mise a cantare. Venne un servitore e li portò via tutti e due.