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12 barcellona.

tori italiani, così, per vezzo, per far vedere che non hanno dimenticato la lingua patria. Per questo sentii poi dire da molti catalani: “Eh! tra la vostra lingua e la nostra c’è poca differenza!” Sfido io! Potrebbero anzi dire quello che mi disse con un tuono di benevola alterezza un corista castigliano, a bordo del bastimento che mi portava cinque mesi dopo a Marsiglia: — La lingua italiana è il più bello dei dialetti che si sian formati dalla nostra. —


Appena ebbi fatto sparire le traccie che l’horrible nuit della traversata dei Pirenei mi aveva lasciato addosso, mi slanciai fuor dell’albergo, e mi misi a batter le strade. Barcellona è, all’aspetto, la città meno spagnuola della Spagna. Grandi edifizi, dei quali pochissimi antichi, lunghe strade, piazze regolari, botteghe, teatri, caffè ampi e splendidi, e un andirivieni continuo di gente, di carrozze, di carri, dalla riva del mare al centro della città, e di qui ai quartieri estremi, come a Genova, a Napoli, a Marsiglia. Una larghissima e diritta strada, detta la Rambla, ombreggiata da due file d’alberi, attraversa quasi per mezzo la città, dal porto in su; uno spazioso passeggio, fiancheggiato di case nuove, si stende lungo la riva del mare, sur un alto argine murato a modo di terrazza, contro il quale si vanno a rompere le onde; un vastissimo borgo, quasi una città nuova, si stende al settentrione, e da ogni parte nuove case rompon la cinta antica, si spandono pei campi, alle falde delle colline, si allungano in file sterminate