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madrid. 153


e non ne potevo staccar gli occhi, tanta è la forza attrattiva del vero, anche spiacente; e tanto son veri i quadri del Ribera! Quei visi li riconoscevo, li avevo visti negli ospedali, nelle stanze mortuarie, dietro le porte delle chiese; son visi di accattoni, di moribondi, di condannati a morte, che mi si parano dinanzi di notte, oggi ancora, percorrendo una strada deserta, passando accanto a un cimitero, salendo su per una scala ignota. Ve n’è alcuni che non si posson guardare; un eremita, nudo, steso in terra, che pare uno scheletro colla pelle; un vecchio santo, al quale la pelle consunta dà l’apparenza d’un corpo scorticato; il Prometeo colle viscere fuor del petto. Al Ribera piaceva il sangue, le membra lacerate, lo strazio; doveva godere a rappresentar dolori; doveva credere in un inferno più orrendo di quel di Dante, e in un Dio più terribile di quel di Filippo II. Nel Museo di Madrid egli rappresenta il terrore religioso, la vecchiezza, i patimenti, la morte.

Più gaio, più vario, più splendido il grande Velasquez. Quasi tutti i suoi capolavori son là. Sono un mondo; v’è ritratto tutto: la guerra, la corte, il trivio, la taverna, il paradiso; è una galleria di nani, d’imbecilli, di pezzenti, di buffoni, d’ubriachi, di commedianti, di re, di guerrieri, di martiri, di numi; tutti vivi, parlanti, in atteggiamenti nuovi, arditi, colla fronte serena, col sorriso sulle labbra, pieni di freschezza e di vigore; il grande ritratto del conte duca d’Olivarez a cavallo, il quadro celebre de las Meninas, quello delle Filatrici, quello dei Bevitori,