stieri di aver un occhio esperto. Son vecchi santi estenuati, con teste calve, nude, sulle quali si contan le vene; occhi pesti, guancie scarne, fronti raggrinzite, petti infossati che lascian vedere le costole; braccia, mani che non hanno che pelle ed ossa; corpi rifiniti, disfatti, vestiti di cenci, gialli del giallo smorto de’ cadaveri, piagati sconciamente, sconciamente sanguinosi; son carcasse che paion tratte allora dalla bara, portanti nel viso l’impronta di tutti gli spasimi delle malattie, della tortura, della fame, dell’insonnia; figure di tavole anatomiche sulle quali potete studiare tutti i segreti dell’organismo umano. Ammirabili, sì, per ardimento di disegno, per vigore di colorito e per gli altri mille pregi che procacciarono al Ribera la fama di potentissimo pittore; ma l’arte vera e grande ah! non è quella. In quei visi non è quel lume celeste, quell'immortal raggio dell’alma che rivela col sublime dolore le speranze sublimi, gl’intimi lampi e i desiderii immensi; quel lume che distrae l’occhio dalla piaga, e leva il pensiero al cielo; non v’è che il dolor crudo che mette ribrezzo e terrore; non v’è che la stanchezza della vita e il presentimento della morte; non v’è che la vita umana che fugge, senza il riflesso di quella immortale che giunge. Non v’è uno di quei Santi di cui si ricordi l’immagine con amore; si guardano, e si sente freddo al cuore, ma il cuore non batte; il Ribera non amava. Eppure nel percorrere le sale del Museo, per quanto fosse vivo il sentimento quasi di ripugnanza che molti di quei quadri m’ispiravano, bisognava che li guardassi,