dipendenza, di quell’antica società spagnuola che si dissolvette sotto i suoi occhi; un fiero aragonese, d’una tempra di ferro, appassionato per i combattimenti dei tori, tanto che negli ultimi anni della sua vita, soggiornando a Bordeaux, correva una volta la settimana a Madrid non per altro che per vedere quello spettacolo, e se ne tornava come una freccia senza neanco salutare gli amici; un ingegno robusto, mordace, imperioso, fulmineo, che nel calore delle sue violente ispirazioni copriva in pochi istanti di figure una parete o una tela, e dava i tocchi d’effetto con quanto gli cadeva in mano, spugne, scope, bastoni; che tracciando il viso d’un personaggio odiato, l’insultava; che dipingeva un quadro come avrebbe combattuto una lotta; disegnatore arditissimo, colorista originale e possente, creatore d’una pittura inimitabile, di ombre paurose, di luci arcane, di sembianze stravolte, e pur vere; grande maestro nell’espressione di tutti gli affetti terribili, dell’ira, dell’odio, della disperazione, della rabbia sanguinaria; pittore atletico, battagliero, instancabile; naturalista come il Velasquez, fantastico come l’Hogart, energico come il Rembrandt, ultimo lampo color di sangue del genio spagnuolo. Son parecchi quadri suoi nel Museo di Madrid, tra i quali uno amplissimo rappresentante tutta la famiglia di Carlo IV; ma i due nei quali versò tutta l’anima sua, sono: i soldati francesi che fucilano gli Spagnuoli il 2 di maggio, e una lotta di popolani di Madrid coi mammalucchi di Napoleone I, a figure di gran-