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madrid. | 149 |
Salvator Rosa, del Menendez, del Cano, del Ribera. Girate per un'ora, e non avete visto nulla; per la prim'ora è una battaglia: i capolavori lottano per disputarsi la vostra anima; la Concezione del Murillo copre d'un torrente di luce il Martirio di San Bartolomeo del Ribera; il San Giacomo di Ribera schiaccia il Santo Stefano di Joanes; il Carlo V del Tiziano fulmina il Conte duca Olivares del Velasquez; lo Spasimo di Sicilia di Raffaello ottenebra tutti i quadri che gli fanno corona; gli Ubriaconi del Velasquez sconcertano con un riflesso di gioia baccanalesca i visi dei santi e dei principi vicini; il Rubens atterra il Van Dyck, Paolo Veronese sopraffà il Tiepolo, il Goya ammazza il Madrazo; i vinti si rifanno su altri minori, altrove si sovrappongono alla loro volta ai vincitori; è una gara di miracoli d'arte, in mezzo a cui la vostra anima inquieta tremula come una fiamma agitata da mille soffi, e il vostro cuore si espande in un sentimento d'orgoglio per la potenza del genio umano.
Sbollito il primo entusiasmo, si comincia ad ammirare. In mezzo a un esercito di tali artisti, dei quali ciascuno richiederebbe un libro a sè, mi attengo agli Spagnuoli, e tra questi, ai quattro che mi destarono un'ammirazione più profonda, e delle cui tele serbo una memoria più distinta.
Il più recente è il Goya, nato verso la metà del secolo scorso. È il pittore più spagnuolo della Spagna, il pittore dei toreros, dei popolani, dei contrabbandieri, delle streghe, dei ladri, della guerra d'in-