Se un giorno un grande poeta italiano vorrà cantare la scoperta del nuovo mondo, in nessun luogo potrà attingere più possenti ispirazioni che nel Museo navale di Madrid, perchè in nessun luogo si sente più profondamente l’aura vergine dell’America selvaggia, e la presenza arcana di Colombo. V’è una sala chiamata Gabinetto degli Scopritori: il poeta, entrandovi, se ha davvero anima di poeta, si scoprirà il capo con venerazione. In qualunque punto della sala cada lo sguardo, si vede un’immagine che fa battere il cuore: non si è più in Europa, nè in questo secolo; si è nell’America del secolo decimoquinto, si respira quell’aria, si vedon quei luoghi, si sente quella vita. Nel mezzo è un alto trofeo d’armi tolte agl’indigeni delle terre scoperte: scudi rivestiti di pelli di fiere, giavellotti di canna colle cocche pennute, sciabole di legno entro guaine di vimini, coll’else ornate di crini e di capelli cascanti in lunghe ciocche; mazze, aste, clave enormi; grandi spade dentellate a modo di sega, scettri informi, turcassi da giganti, vestimenti di pelo di scimmia, daghe di re e di carnefici, armi dei selvaggi di Cuba, del Messico, della nuova Caledonia, delle Caroline, delle isole più remote del Pacifico, nere, strane, orrende, che destan nella fantasia visioni confuse di lotte terribili, nell’oscurità misteriosa delle foreste vergini, entro sterminati laberinti d’alberi ignoti. E intorno a queste spoglie d’un mondo selvaggio, le immagini e le memorie dei vincitori: qui il ritratto di Colombo, là il