la spada del Conte duca di Olivares, la spada di Giovanni d’Austria, la spada di Conzalvo di Cordova, la spada del Pizzarro, la spada del Cid, e un po’ più in là, la celata di re Boabdil di Granata, la targa di Francesco I, la seggiola da campo di Carlo V. In un canto della sala sono schierati i trofei degli eserciti ottomani, elmetti tempestati di gemme, sproni, staffe dorate, collari di schiavi, pugnali, scimitarre dal fodero di velluto, cerchiati d’oro, ricamati, imperlati; le spoglie di Alì Bascià, ucciso sulla nave capitana alla battaglia di Lepanto; il suo caffettano di broccato d’oro e d’argento, la cintura, i bozzacchini, lo scudo; le spoglie dei suoi figli; le bandiere strappate dalle galee. Da un altro lato, corone votive, croci e monili di principi goti. In un altro scompartimento, gli oggetti tolti agli Indiani di Mariveles, ai Mori di Cagayan e del Mindanao, ai selvaggi delle più remote isole dell’Oceania: collane di guscio di lumaca, pipe di lattone, idoli di legno, flauti di canna, ornamenti fatti di zampe d’insetti, schiavine di foglie di palma, foglie scritturate che servivan di salvacondotto, freccie avvelenate, scuri da carnefici. E poi da qualunque parte uno si volga, selle di re, cotte d’arme, colubrine, tamburi storici, ciarpe, iscrizioni, memorie ed immagini di tutti i tempi e di tutti i paesi, dalla calata dei Goti alla battaglia di Tetuan, dal Messico alla China; un emporio di tesori e di capolavori da cui uno si allontana, commosso, stordito e sfinito, per ritornar poi a sè come da un sogno, colla memoria stracca e confusa.