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barcellona. | 7 |
osterie dove scendemmo in seguito, udimmo ben altro. In tutte si trovò un oste, o un avventore che leggeva un giornale, e intorno un crocchio di paesani che ascoltavano. Tratto tratto la lettura era interrotta e accendevasi qualche discussione politica che io non capivo, poichè parlavan catalano; ma della quale riuscivo però ad afferrare il concetto dominante, aiutandomi col giornale che avevo sentito leggere. Ebbene, debbo proprio dire che in tutti quei crocchi alitava un’auretta repubblicana che avrebbe increspato la pelle al più intrepido amedeista. Uno fra gli altri, un omone dal cipiglio fiero e dalla voce profonda, dopo aver parlato un pezzo in mezzo a una corona di muti ascoltatori, si voltò verso di me, che dalla inesatta pronunzia castigliana aveva preso per francese, e mi disse con molta solennità: “Le dirò una cosa, caballero!” — “Quale?” — “Le digo” mi rispose, “que España es mas desgraciada que Francia;” e detto questo si mise a passeggiar per la stanza col capo basso e le braccia incrociate nel petto. Intesi altri parlare confusamente di Cortes, di ministri, di ambizioni, di tradimenti e d’altre cose terribili. Una sola persona, una ragazza d’una trattoria di Figueras, saputo che ero italiano, mi disse sorridendo: “Ahora tenemos un rey italiano.” E dopo poco, andandosene, soggiunse con graziosa semplicità: “A mi me gusta.”
Arrivammo, ch’era ancor notte, a Girona, dove re Amedeo, accolto, a quanto si dice, festosamente, pose una lapide nella casa abitata dal generale Alva-