cuno del Rubens, del Mascagni, del Cardenas, di Vincenzo Carducci, gli altri son quadri di pochissimo pregio, razzolati qua e là pei conventi, e sparsi a casaccio nelle stanze, nei corridoi, nelle scale, nelle gallerie. Ciò non di meno, gli è un Museo che lascia nell'animo una impressione profonda, non molto dissimile da quella che produce la prima volta lo spettacolo del combattimento dei tori; e infatti sono trascorsi più di sei mesi da quel giorno, ed io la risento ancora come se l'avessi ricevuta poche ore fa. Quanto di più tristo, di più sanguinario, di più orrendo è uscito dal pennello dei più feroci pittori spagnuoli, si trova raccolto là. Immaginate pur delle piaghe, delle membra mutilate, delle teste spiccate dal busto, dei corpi estenuati, flagellati, tanagliati, arsi, straziati con quanti tormenti abbiate mai trovati descritti nei romanzi del Guerrazzi o nelle Storie dell'Inquisizione, non giungerete a formarvi un'adeguata idea del Museo di Valladolid. Passate di sala in sala, e non vedete che visi stravolti di morti, di moribondi, d'indemoniati, di carnefici, e in ogni parte sangue, e sangue, e sangue, che vi pare di vederlo spicciar fuori dei muri e di sguazzarci dentro come la Babette del Padre Bresciani nelle prigioni di Napoli. È un cumulo di dolori e d'orrori da riempirne gli spedali d'uno Stato. Sulle prime si prova un senso di tristezza, poi di ribrezzo, in fine, più che di ribrezzo, di sdegno contro gli artisti macellai che prostituirono l'arte di Raffaello e di Murillo in così sconcia maniera. Il quadro più guar-