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il circolo filologico di torino. 225

scolastici, s’era dato alla lingua inglese e alla tedesca con tanto ardore, che passava le notti sulle grammatiche e sui vocabolari come le avrebbe passate al ballo o al teatro. Ma studiar da sè non gli bastava, e d’altra parte egli era troppo corto a quattrini per dare un venti trenta lire al mese a un maestro. Come fare? A furia di pensarci, trovò il mezzo di supplire o bene o male alle lezioni, almeno per imparare la pronuncia. La sera, finito appena di desinare, correva nella chiesa dei protestanti, si cacciava nel coro, e mentre i suoi vicini tedeschi o inglesi cantavano le loro preghiere, egli se ne stava là tutto raccolto e intento ad afferrare ed imprimersi nella memoria quei suoni, quegli accenti, quelle cadenze; poi cominciò a cantare anche lui; poi, uscendo, prese a fermarsi accanto a qualche crocchio, a dir qualche parola, ad appiccare un po’ di discorso; insomma tirò innanzi così per parecchi mesi ed imparò qualche cosa. — Ma è lunga! — esclamava sovente; — è lunga e dura! Povero giovane, quanto sarebbe stato felice se un giorno gli avessero detto: — Puoi risparmiarti tutti questi sacrifizi, si sta per aprire una scuola così e così, avrai modo di studiare quante lingue vuoi, con tutto comodo, e con cinque lire al mese! — Io pensai a codesto giovane girando per le sale del Circolo di Torino, e avrei voluto averlo un momento con me, per vedere il suo viso usualmente atteggiato ad una serietà e ad una tristezza precoce, rasserenarsi e sorridere, come quando gli vien fatto di cogliere alla prima il senso d’un intricato periodo tedesco. Torna a Firenze — io gli avrei detto; — e fa’ istituire il Circolo tu stesso; qui l’ha fatto un impiegato di ventiquattr’anni; tu fa’ vedere che ci può riuscire anche uno studente di diciassette. E chi sa che se gli cadranno sott’occhio queste linee non gliene venga l’idea?