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92 alla francia.


16 agosto.

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Se le guerre non fossero per molti altri effetti deplorevoli, questo per sè solo basterebbe a farle ritenere una sventura: la sconfinata presunzione che si rivela nei giudizi e nella forma del linguaggio di tutti coloro che ne discorrono. È una cosa che non ha riscontro in nessun’altra occasione di avvenimento pubblico che sollevi delle discussioni; è la postergazione generale della modestia e del pudore; è un acciecamento completo. Si direbbe che l’aura della guerra entrandoci dentro ci tolga la facoltà di sentire rettamente di noi, e ingigantisca nella mente di ciascuno il concetto di tutte le doti e le facoltà naturali e acquisibili dell’anima sua. Improvvisamente, per virtù della guerra, si desta e si sviluppa nell’anima del bottegaio, dello scolare, del fattorino, dell’impiegato, di tutte le persone più aliene per istudi e per istituto di vita dalle cose militari, un amor proprio strategico, un amor proprio tattico, un amor proprio geografico, un amor proprio politico, un amor proprio storico, diecimila non mai provati amor propri, ombrosi, infiammabili, intolleranti, quali appena potrebbero essere scusati dalla coscienza d’un genio trascendentale e d’una dottrina meravigliosa.

La discussione non soffre confini; la parola è concitata e franca; il giudizio pronto, reciso e sicuro; tutte le parole, tutte le forme dubitative sbandite. Provatevi a dire: — Adagio, riflettiamo, aspettiamo, potremmo non avere inteso bene, ci potrebbe mancare ancora qualche elemento di giudizio, si potrebbe dare ancora qualche accidente che ci costringesse a modificare il nostro parere; si tratta di giudicare degli uomini che invecchiarono in codesti studi: quanto più si va innanzi negli anni e nell’esperienza vedete che