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alla francia. 91

lascia apparire di sotto il profilo risentito e fiero della repubblica antica. Veggo un tratto di teatro tutto fitto di lumi; tendo l’orecchio se mi arrivasse un verso gentile del Musset o un motto arguto dell’autore di Dalila, e scoppiano le note terribili della Marsigliese. M’affaccio alla finestra per godere il brulichìo denso ed allegro di una grande strada di Parigi, e veggo una moltitudine compatta ed impetuosa che si allontana levando fiere grida di guerra e di morte. Sento una voce infantile e sonora, mi volto, mi veggo scintillare dinanzi due grandi occhi neri, mi ricordo del ritratto di Hugo, riconosco il caro e terribile gamin delle barricate, gli vado incontro; egli mi grida: — Armi! — e scompare. Guardo in un salottino lucente di seta e di specchi, una bella figura alta e flessibile, coi capelli sciolti, in atteggiamento stanco e voluttuoso; riconosco l’eroina dei romanzi, la protagonista dei proverbi, il primo fantasma acceso nei miei sogni giovanili dal Dumas e dal Sue; la chiamo, si volta, è mutata, è pallida, piange; il suo amante è alla guerra. Mi sento urtato per la via, mi volto, è l’impresario, il negoziante, il fattore, l’uomo panciuto del Kock, che schiaccia la gente nelle diligenze e arriva sempre a casa quando sua moglie ha finito; è lui, e me lo vedo vestito da guardia mobile, fiero e impettito, e mi grida colla sua grossa voce nasale: — Alla guerra! — Corro di caffè in caffè, cerco il mio tipo di giovanotto da romanzo, bello, elegante, ricco, generoso, innamorato, benedetto di tutti i doni di Dio, e lo incontro vestito da tiratore algerino, colla testa rasa, con due grosse scarpe, col viso già abbrunato dai primi soli del campo di Marte colle mani incallite dal fucile.... Parigi! bella e cara Parigi! ha pur detto bene quel grande che a viver lontani da te si sente sempre un po’ di vuoto nel cuore, ci pare sempre che qualche cosa ci manchi, si prova sempre qualche cosa che rassomiglia da lontano alla tristezza dell’esilio.