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viso smorto, una faccia di giustiziere, chiomato come un re merovingio e vestito d’una specie di camicia azzurrina che gli scendeva fino ai piedi. Quando m’avvicinai, saltellava grottescamente intorno a una pelle di capra distesa in terra, dalla quale usciva la bocca d’un sacco, dov’erano chiusi i serpenti; e saltellando cantava, accompagnato da un flauto, una canzone di motivo malinconico, che doveva essere una invocazione al suo Santo. Finito il canto, chiacchierò e gesticolò lungo tempo per farsi buttar dei denari, poi s’inginocchiò davanti alla pelle di capra, ficcò la mano nel sacco, ne tirò fuori, con molti riguardi, un lungo serpente verdognolo, pieno di vita, e lo portò in giro sotto gli occhi degli spettatori. Poi cominciò a maneggiarlo in tutti i modi, come se fosse stato un pezzo di corda. Lo afferrò per il collo, lo tenne sospeso per la coda, se lo attorcigliò intorno alla fronte, se lo nascose nel petto, lo fece passare per i fori del cerchio di un tamburello, lo buttò in terra, lo trattenne col piede, se lo strinse sotto un’ascella. L’orribile bestia rizzava la testa schiacciata, dardeggiava la lingua, si scontorceva con quei suoi movimenti flessuosi, odiosi, abbietti, che sembrano l’espressione d’una vigliacca perfidia; e schizzava dagli occhi piccolissimi tutta la rabbia che gli fremeva nel corpo; ma non m’accorsi che