ma sparse e raggruppate in maniera che parevano innumerevoli. Era un’illusione ottica singolarissima. Su tutti i rialti del terreno, come sopra altrettante loggie, v’erano gruppi di arabe sedute all’orientale, immobili, rivolte verso la parte bassa del Soc. Qui, da una parte, la folla divisa in due ali lasciava libero un grande spazio a un drappello di cavalieri che si slanciavano alla carriera, schierati di fronte, sparando i loro fucili lunghissimi; dall’altra parte, v’erano grandi cerchi d’arabi, uomini e donne, in mezzo ai quali davano spettacolo giocatori di palla, tiratori di scherma, incantatori di serpenti, ballerini, cantastorie, suonatori, soldati. Sull’alto della collina, sotto una tenda conica, aperta sul davanti, biancheggiava l’enorme turbante del vice-governatore di Tangeri, il quale presiedeva alla festa, seduto in terra, in mezzo a una corona di mori. Di lassù si vedevano giù in mezzo alla folla i soldati delle Legazioni vestiti dei loro pomposi caffettani rossi, qualche cappello cilindrico, qualche ombrella di consolessa, e i pittori Ussi e Biseo coll’album e la matita in mano; di là dalla folla, Tangeri; di là da Tangeri, il mare. Lo strepito delle fucilate, gli urli dei cavalieri, lo scampanellìo degli acquaioli, le grida festose delle donne, il suono dei pifferi, dei corni, dei tamburi, formavano tutt’insieme un frastuono inaudito, che rendeva più