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per celebrare le loro feste, i confratelli sparsi per le città e per le campagne. Il loro rito, simile a quello dei dervis urlanti e giranti dell’Oriente, consiste in una specie di danza sfrenata accompagnata da salti, scontorcimenti e grida, nella quale vanno via via infuriando e inferocendosi finchè, perduto ogni lume, stritolano legno e ferro coi denti, si brucian le carni con carboni accesi, si straziano coi coltelli, inghiottiscono fango e sassi, sbranano animali e li divoran vivi e grondanti di sangue, e cadono a terra senza forze e senza ragione. A questi eccessi non giunsero gli Aïssaua che io vidi a Tangeri, e credo che ci giungano raramente, e assai pochi, se pure qualcuno vi giunge ancora; ma fecero però abbastanza per lasciarmi nell’animo un’impressione incancellabile.

Il Ministro del Belgio c’invitò ad assistere allo spettacolo dal terrazzo di casa sua, che guarda sulla strada principale di Tangeri, dove sogliono passare gli Aïssaua per andare alla moschea. Dovevano passare alle dieci della mattina, scendendo dalla porta del Soc di Barra. Un’ora prima, la strada era già piena di gente e le case coronate di donne arabe ed ebree, vestite dei loro colori vivissimi, che davano alle terrazze bianche l’aspetto di grandi ceste di fiori. All’ora fissata, tutti gli occhi si voltarono verso la porta, all’estremità della strada, e