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alle nostre mule, poi uno sciame di monelli a correrci dinanzi e un altro sciame alle spalle, facendo una gazzarra d’inferno. I soldati, ben inteso, non stettero a far complimenti. Due rimasero davanti, due ci si misero dietro, e attaccarono un vero combattimento colla ragazzaglia, legnando i più vicini, tirando sassate ai più lontani, inseguendo per lunghi tratti i più insolenti. Ma fu fatica sprecata. Non osando risponder coi sassi, i monelli si misero a buttar aranci fradici, buccie di limone, sterco secco, e la pioggia diventò in pochi momenti così fitta, che ci parve prudente di consigliare i soldati a desistere dalle offese, per non provocare di peggio. Ma i soldati inaspriti o non ci sentirono o non ci vollero dar retta e continuarono a combattere con furore crescente. Non potendo sfogarsi sui monelli, se la pigliavano cogli uomini. A ogni pancia che spuntasse da una porta, una funata, a modo di avvertimento; a ogni povero diavolo che, passandoci accanto, non si stringesse al muro, un urtone che lo cacciava dieci passi indietro; a ogni vecchia che ci guardasse torvo, i pugni sul viso e un urlo sgangherato nell’orecchio.

Indignati di quella brutalità, li avvertimmo con gesti risoluti che smettessero. Quei disgraziati credettero che li rimproverassimo di fiacchezza e si diedero a picchiare più forte. Per giunta, sbuca-