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videro soffermarsi sulla sponda, e guardare qua e là in cerca d’un passaggio, credendo che gli mancasse l’animo, diedero in un’altra risata più insolentemente sonora. — Nessuno di noi, — disse un di loro ad alta voce, — è mai riuscito a salire là sopra: staremo a vedere se ci riesce un nazareno. — E certo nessun altro di noi italiani ci sarebbe salito; ma quello che ci si provava, era per l’appunto il più svelto personaggio dell’Ambasciata. Le risa degli arabi gli diedero l’ultima spinta. Spiccò un salto, disparve in mezzo agli arbusti, ricomparve ritto sopra un sasso, si rinascose, e così, di pietrone in pietrone, saltando come un gatto, strisciando, arrampicandosi, rischiando dieci volte di cader nel fiume o di spezzarsi la testa, riuscì ai piedi del macigno, e senza prender fiato, aggrappandosi a tutti gli sterpi e a tutti gli incavi, salì sulla sommità e vi si drizzò come una statua. Noi tirammo un gran respiro, gli arabi rimasero attoniti, l’onore italiano era salvo. Il capitano, da nobile vincitore, non degnò nemmeno d’uno sguardo i suoi avversarii scornati, e appena riconosciuto che le supposte pietre istoriate non erano che frantumi di calcestruzzo delle spallette del ponte, scese giù da un’altra parte, e in pochi salti riafferrò la riva dove fu ricevuto cogli onori del trionfo.