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Si scosse.

Qui a vaincu? — domandò con una certa vivacità, fissandomi negli occhi.

— La Prussia, — risposi.

Fece un atto di sorpresa.

Gli raccontai in poche parole i grandi disastri della Francia, l’invasione, la presa di Parigi, la perdita delle due provincie.

Stette a sentire colla testa bassa e le soppracciglia aggrottate; poi si riscosse e disse con un certo sforzo: — C’est égal... je n’ai plus de patrie... ça ne me regarde pas...

E riabbassò la testa.

Io lo osservavo, se n’accorse.

Adieu, monsieur, — disse improvvisamente, con voce alterata, e se n’andò a passi lesti.

— Tutto non è dunque morto ancora! — pensai, e me ne sentii rallegrato.

Intanto gli artiglieri avevan cessato di tirare al bersaglio, il Sultano s’era seduto sotto un padiglione bianco ai piedi d’una torre, e i soldati cominciavano a sfilargli davanti, un per uno, senz’armi, alla distanza di circa venti passi l’un dall’altro. Non essendoci nè accanto al Sultano, nè dirimpetto al padiglione alcun ufficiale che leggesse i nomi, come si fa da noi, per accertare l’esistenza di tutti i soldati segnati nei ruoli (e si dice che nell’esercito marocchino non esiston ruoli), non capii che scopo potesse avere