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424 | fez |
Si scosse.
— Qui a vaincu? — domandò con una certa vivacità, fissandomi negli occhi.
— La Prussia, — risposi.
Fece un atto di sorpresa.
Gli raccontai in poche parole i grandi disastri della Francia, l’invasione, la presa di Parigi, la perdita delle due provincie.
Stette a sentire colla testa bassa e le soppracciglia aggrottate; poi si riscosse e disse con un certo sforzo: — C’est égal... je n’ai plus de patrie... ça ne me regarde pas...
E riabbassò la testa.
Io lo osservavo, se n’accorse.
— Adieu, monsieur, — disse improvvisamente, con voce alterata, e se n’andò a passi lesti.
— Tutto non è dunque morto ancora! — pensai, e me ne sentii rallegrato.
Intanto gli artiglieri avevan cessato di tirare al bersaglio, il Sultano s’era seduto sotto un padiglione bianco ai piedi d’una torre, e i soldati cominciavano a sfilargli davanti, un per uno, senz’armi, alla distanza di circa venti passi l’un dall’altro. Non essendoci nè accanto al Sultano, nè dirimpetto al padiglione alcun ufficiale che leggesse i nomi, come si fa da noi, per accertare l’esistenza di tutti i soldati segnati nei ruoli (e si dice che nell’esercito marocchino non esiston ruoli), non capii che scopo potesse avere