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fez 351


La pioggia che vien giù dirottamente da quasi tre giorni, ha ridotta Fez in uno stato che, a descriverlo, c’è da non esser creduti. Non è più una città, è un’immensa cloaca. Le strade son gore; i crocicchi, laghi; le piazze, paludi; la gente a piedi sprofonda nella melma fino a mezzo lo stinco; le case sono impillaccherate fin sopra le porte; uomini, cavalli, muli, par che si siano ravvoltolati nel fango, e i cani ne sono addirittura vestiti in modo che non mostran più un pelo. Non si vede che pochissima gente, la maggior parte a cavallo; e non un ombrello, ma neppure alcuno che affretti il passo per non pigliare la pioggia. Fuori del quartiere dei bazar, tutto è deserto e oscuro che stringe il cuore. Per tutto acqua che corre, precipita e ringorga, travolgendo ogni sorta di putridumi, e non una voce, non un rumore umano che rompa la monotonia di quello strepito assordante. Pare una città abbandonata dagli abitanti nel momento d’una inondazione. Dopo una passeggiata d’un’ora, son tornato a casa pieno di malinconia, e ho passato parecchie ore nella mia stanza, col viso all’inferriata e gli occhi fissi su gli alberi sgoc-