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altra cosa per la città. Montammo tutti a cavallo e ci dirigemmo verso la porta della Nicchia del burro, preceduti da un drappello di fantaccini dalla divisa rossa, seguiti da tutti i soldati della legazione, fiancheggiati da ufficiali, interpreti, cerimonieri e cavalieri della scorta di Ben-Kasen-Buhammei. Era un bellissimo spettacolo quella mescolanza di cappelli cilindrici e di turbanti bianchi, di uniformi diplomatiche e di caffettani rosei, di spadine di gala e di sciaboloni barbareschi, di guanti canarini e di mani nere, di calzoni dorati e di gambe nude; e lascio considerare che figura ci facessimo noi quattro, vestiti da ballo, a cavallo a una mula, seduti sopra una sella rossa alta come un trono, grondanti di sudore e coperti di polvere appena usciti di casa. Le strade erano piene di gente. Al nostro apparire tutti si fermavano e facevano ala. Guardavano il cappello piumato dell’Ambasciatore, i cordoni d’oro del capitano, le medaglie del Comandante, e non davano alcun segno di meraviglia. Ma quando passavamo noi quattro, ch’eravamo gli ultimi, era prima uno stralunamento d’occhi e poi un esilararsi di volti che metteva un vero dispetto. Accanto a noi cavalcava Mohammed-Ducali: lo pregai di tradurmi qualcuna delle osservazioni che gli riuscisse di cogliere a volo. Un moro, in mezzo a un crocchio, disse non