tano di trenta in trenta passi; ad ogni tratto un lungo passaggio coperto, buio come un andito sotterraneo, dove bisogna camminare a tentoni; vicoli senza uscita, recessi, antri, meandri umidi e sinistri, sparsi di ossami, d’animali morti e di strame imputridito; tutto ciò rischiarato da una luce crepuscolare che mette malinconia. In alcuni punti il terreno è così rotto, il polverio così denso, il fetore così acuto, i moscerini così fitti, che bisogna fermarsi per riprendere lena. In una mezz’ora di cammino abbiamo fatto tanti giri che, disegnati, formerebbero uno dei più intricati arabeschi dell’Alhambra. Di tratto in tratto sentiamo il rumore d’una ruota da mulino, un mormorio d’acqua, lo strepito d’un telaio, una cantilena di voci nasali, che ci dicon che venga da una scuola di bambini; ma non si vede nulla da nessuna parte. Ci avviciniamo al centro della città; la gente spesseggia; gli uomini si fermano per lasciarci passare, guardandoci con aria attonita; le donne tornano indietro o si nascondono; i bambini gridano e scappano; i ragazzi brontolano e ci mostrano i pugni da lontano, tenendo d’occhio il bastone dei soldati. Vediamo fontane ornate di ricchi musaici, porte arabescate, qualche cortile ad archi, qualche resto di bella architettura araba annerito dal tempo. Ogni momento, a cagione dei passaggi coperti, ci troviamo al buio; poi