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cuni si son messi la giacchetta rossa sul capo per ripararsi dal sole. Di tratto in tratto v’è un tamburino, un trombetta, cinque o sei bandiere le une accanto alle altre, rosse, gialle, verdi, ranciate, tenute come si tengono le croci nelle processioni. Non si vede nessuna divisione di squadre o di compagnie. Paiono soldatini di cartone messi in fila da un ragazzo. Vi son dei neri, dei mulatti, dei bianchi, faccie d’un colore indefinibile; uomini di statura ciclopica accanto a bimbi che appena possono reggere il fucile; vecchi con una lunga barba bianca, curvi, che s’appoggiano col gomito ai vicini; figure selvaggie che fan l’effetto, con quell’uniforme, di scimmie vestite ed ammaestrate; tutti ci guardano cogli occhi attoniti e la bocca aperta e si stendono dinanzi a noi in due file a perdita d’occhio.

Una seconda folla di cavalieri ci viene incontro, a sinistra. È il vecchio governatore Gilali Ben Amù, seguito da diciotto sotto-governatori e dal fiore dell’aristocrazia di Fez, tutti vestiti di bianco da capo a piedi, come uno stuolo di sacerdoti: visi austeri, barbe nere, caic di seta, bardature dorate. Salutano, ci girano intorno e s’uniscono alla scorta e alla Corte.

Andiamo innanzi, sempre in mezzo a due schiere di soldati, dietro ai quali ondeggia una