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250 da zeguta al tagat


gozianti, patenti de’ mori della carovana, tutta gente ben vestita, linda, cerimoniosa, circonfusa dell’aura della corte e della metropoli, che parla con voce grave e gesti maestosi dell’esercito formidabile, della folla immensa, del palazzo delizioso che ci aspetta. L’entrata a Fez è stabilita per le otto della mattina seguente. All’alba tutti sono in piedi. È un gran lavorìo di rasoi, di spazzole, di pettini, di striglie, e un’allegrezza che ci rifà ad usura di tutte le fatiche del viaggio. L’Ambasciatore si mette il suo berretto dorato, Hamed Ben Kasen la sciabola di gala, Selam un caffettano color di rosa, Civo un fazzoletto verde intorno al capo, segno di grande solennità; tutti i servi, la cappa bianca; tutti i soldati della scorta, le armi lucide; tutti gl’italiani, la roba più sfoggiata dei loro bauli. Siamo, fra tutti, un centinaio, e si può affermare che l’Italia non ha mai avuto un’ambasciata più bizzarramente composta, più pomposamente colorita, più allegramente impaziente, più impazientemente aspettata di questa. Il tempo è bellissimo, i cavalli scalpitano, i caic ondeggiano al venticello della mattina, tutti i volti brillano, tutti gli sguardi si fissano sull’Ambasciatore che conta i minuti sull’orologio. Son le otto — un cenno — tutti a cavallo — e avanti. Ah! che vuol dire essere eternamente bambino! Mi sento battere il cuore!