uso, e si può dire che sono quasi tutte vittime di questa foglia deleteria, quegli arabi e mori, molto frequenti nelle città, che guardano chi passa cogli occhi sbarrati e stupidi, e camminano, quasi strascicandosi, come gente sbalordita da una percossa nel capo. La maggior parte fumano il kif, mescolato con un po’ di tabacco, in piccolissime pipe di terra cotta; altri lo mangiano in una specie di pasta dolce chiamata madjun, fatta con burro, miele, noce moscata e garofani. Gli effetti sono stranissimi. Il dottor Miguerez, che ne aveva fatto esperimento, me ne parlava sovente, dicendo, fra le altre cose, ch’era stato preso da un accesso di riso irresistibile, e che gli pareva di sentirsi sollevato da terra, tanto che, passando sotto un portone alto due volte lui, aveva chinato la testa per paura d’urtare. Stimolato dalla curiosità, io l’avevo pregato più volte di darmi una porzioncina di madjun, poca, per non perdere affatto la bussola, ma bastante a farmi vedere e sentire qualcuna almeno delle mille meraviglie ch’egli mi raccontava. Il bravo dottore per i primi giorni si scusò, dicendo che sarebbe stato meglio fare l’esperimento a Fez, con tutti i comodi; ma io continuai a sollecitarlo, e a Zeguta, finalmente, un po’ a controvoglia, mi presentò in un piattino il boccone sospirato. Eravamo a tavola. Con me, se non m’inganno, ne