ospitato; e veramente la casa d’un Ministro europeo in Africa, d’un Ministro, in specie, che si prepara ad un viaggio nell’interno, è degna d’osservazione. L’edificio, per sè stesso, non ha nulla di straordinario: di fuori è bianco e nudo, ha un giardinetto davanti, un piccolo cortile nell’interno, e nel cortile quattro colonne sulle quali s’appoggia una galleria coperta che gira tutt’intorno all’altezza del primo piano. È una casa signorile di Cadice o di Siviglia. Ma la gente, la vita di questa casa mi riuscì affatto nuova. Governante e cuoco, piemontesi; una serva mora di Tangeri ed una negra del Sudan, coi piedi nudi; camerieri e stallieri arabi vestiti di grandi camicie bianche; guardie consolari, con fez, caffettano rosso e pugnale; tutta questa gente in moto per tutta la giornata. Poi, a certe ore, un andirivieni di operai ebrei, di facchini neri, d’interpreti, di soldati del Pascià, di mori protetti dalla Legazione. Il cortile era ingombro di casse, di letti da campo, di tappeti, di lanterne. A tutte le ore si sentiva picchiare il martello e strider la sega, e i servi chiamarsi fra loro con quei nomi strani di Fatma, Racma, Selam, Mohammed, Alì, Abd-er-Rhaman. E la mescolanza delle lingue! Un moro faceva un’imbasciata in arabo a un altro moro, che la trasmetteva in spagnolo alla governante, che la ripeteva in pie-