cini; davanti all’entrata un fornello, formato di due mattoni; da un lato della tenda un piccolo orto; più in là alcuni fossi rotondi, rivestiti di pietre o di cemento, nei quali conservano il grano. In quasi tutti i grandi duar v’è una tenda appartata dove sta il maestro di scuola, al quale il duar dà cinque lire il mese, oltre a molte provvigioni di viveri. Tutti i ragazzi vanno là a ripetere centomila volte gli stessi versetti del Corano, e a scriverli, quando li sanno a mente, sopra una tavola di legno. La maggior parte, lasciando la scuola prima di saper leggere, per andar a lavorare coi genitori, dimenticano in breve tempo il poco che hanno imparato. I pochissimi che hanno volontà e modo di studiare, continuano fino a vent’anni, per andar poi a compiere gli studi in una città, e diventare taleb, che significa scrivano o notaro, ed equivale a prete, poichè è una cosa sola, presso i Maomettani, la legge religiosa e la civile. La vita che si fa in questi duar è semplicissima. All’alba, tutti si levano, dicono le loro preghiere, mungono le vacche, fanno il burro, e bevono il latte agro che ne rimane. Per bere si servono di gusci di conchiglie e di patelle che comprano dalle popolazioni della costa. Poi gli uomini vanno a lavorare alla campagna, e non tornan più che verso sera. Le donne vanno a pigliar acqua e a cercar legna,