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parte improperii e maledizioni. Ma i gruppi dispersi si riannodavano e continuavano ad accompagnarci correndo. A traverso il fumo e il polverìo, rotto dai lampi delle fucilate, vedevamo per quei vastissimi campi, in lontananza, tende, cavalli, cammelli, armenti, gruppi di aloé, colonne di fumo, frotte di gente rivolta verso di noi, immobile, in atteggiamento di stupore. Eravamo finalmente arrivati in una terra abitata! Esisteva dunque, non era una fiaba, questa benedetta popolazione del Marocco! Dopo un’ora di passo accelerato, ci si trovò di nuovo in una campagna solitaria, non accompagnati da altri che dalla scorta; e fatto appena un altro miglio, svoltando intorno a una macchia di fichi d’India, s’ebbe l’inaspettato e sempre vivissimo piacere di veder sventolare la bandiera italiana in mezzo alla nostra piccola città vagante, di cui s’alzavano in quel momento appunto le ultime case.

L’accampamento era sulla sponda del Sebù, il quale descrive un grand’arco dal punto dove l’avevano passato fino a quello dove eravamo giunti.

Una fitta catena di sentinelle a piedi, armate di fucile, si stendeva tutt’intorno alle tende.

Il paese era dunque pericoloso davvero.