riceveva altra luce che quella del cielo stellato, sul quale biancheggiavano, come enormi tombe di marmo, le case più alte, e si disegnavano nitidamente le cime dei minareti e i rami delle palme. Andai sino in fondo alla strada principale: le porte della città erano chiuse. Girai per altre vie: tutto chiuso, immobile, muto. Due o tre volte inciampai in qualchecosa che a primo aspetto mi parve un mucchio di cenci, ed era un arabo addormentato. Sentii più volte, con raccapriccio, scricchiolare sotto il mio piede penne ed ossami, o cedere mollemente qualcosa che doveva essere la carogna d’un cane. Mi passò accanto, rasente il muro, come uno spettro, un arabo incappato; ne vidi un altro biancheggiare un momento in fondo a un vicolo; e a una svoltata sentii, senza veder nulla, un fruscìo affrettato di pantofole e di cappe, che mi fece sospettare d’aver turbato un conciliabolo. Andando, non sentivo che il rumore del mio passo; fermandomi, non sentivo che il mio respiro. Mi pareva che tutta la vita di Tangeri si fosse ridotta in me solo, e che se avessi gettato un grido, sarebbe risonato da un capo all’altro della città come uno scoppio di tuono. Pensavo alle tante belle arabe addormentate, alle quali passavo vicino, e agli strani misteri che avrei scoperti, se quelle case si fossero aperte tutt’a un tratto come una scena di teatro. Di quando